Per chi non lo conoscesse Marco D’Amore è un attore di Teatro e di cinema noto al “grande pubblico” principalmente per il ruolo di Ciro Di Marzio nella serie tv Gomorra, andata in onda su Sky Atlantic. La serie è stata comprata da oltre 100 paesi ( tra cui gli USA, prima serie italiana) e ha riscosso un grandissimo successo nei paesi dove è stata finora trasmessa. Questa serie è chiaramente tratta dal libro di Roberto Saviano, che ha contribuito alla stesura della sceneggiatura. Ho incontrato D’Amore a Milano in occasione della presentazione del cofanetto DVD e Blueray della serie e abbiamo parlato di come il suo personaggio assomigli a Iago, di come Donna Imma, la moglie del boss Pietro Savastano, sia stata paragonata a Lady Macbeth, tanto di teatro e tantissimo di Napoli, città qui raffigurata in maniera assolutamente insolita, rispetto ai consolidati luoghi comuni che generalmente vengono definiti “caratteristiche tradizionali” ma che di tradizionale non hanno nulla. Gomorra è una serie fatta benissimo, oltre alla recitazione superba di TUTTI gli attori, anche di quelli con le parti minori e di contorno, una cosa che mi ha davvero incuriosita è la cura della fotografia: Napoli la conosco bene e anche con il cielo in tempesta non riesce comunque ad essere così mostruosa, almeno ai miei occhi e al mio cuore, così come viene dipinta (“dipingere” credo sia il termine più adatto) dal meraviglioso direttore della fotografia Paolo Carnera ( allievo di Vittorio Storaro, il fotografo di molti dei film di Bertolucci, Oscar nel 1980 per “Apocalypse Now”, nell’82 per “Reds”, nell’88 per “L’ultimo Imperatore”). Carnera è andato a studiare Napoli per conto suo, molti mesi prima di cominciare a girare. Insomma un lavorone questo di Gomorra-la serie, bellissimo, entusiasmante, shakespeariano ma vissuto in napoletano (il termine “recitare” mi sembra quasi riduttivo), un orgoglio italiano e napoletano. Affinàle, vedetelo che merita davvero.
La drammaturgia di “Gomorra” è stata paragonata ai testi di Shakespeare, Donna Imma a Lady Macbeth, Ciro sicuramente assomiglia a Iago. Una cosa che è sicuramente molto simile a Shakespeare è che il bene e il male si equivalgono, lo abbiamo visto anche in “Perez” (film interpretato con Luca Zingaretti n.d.EDD): azioni esecrabili e nobilitanti sono messe in atto dal medesimo personaggio. La cosa che differenzia Gomorra da Shakespeare è la motivazione dei personaggi, secondo me: Lady Macbeth è spinta dall’ambizione e sobilla il marito all’azione diretta, mentre Donna Imma è autonoma, è cosciente che deve rimanere lucida, altrimenti perde il controllo della situazione, è sicura del suo status perché la sua ambizione è già espressa, è già al vertice. Ciro da parte sua non è mosso da ambizione, perché non c’è un Cassio che ha preso il suo posto, ma dal desiderio di vendetta del suo amico Attilio, sebbene le sue dinamiche siano insidiose e distruttive come quelle messe in atto da Iago.
Marco D’Amore: “Ti dico, in tempi non sospetti mi avvalgo del diritto di dire che la citazione rispetto a Iago l’ho fatta in prima persona pensando al mio personaggio: avevo detto che quella era stata una vertigine, come molto spesso capita quando lavori su un personaggio che è comunque epico e ha per sua natura una struttura molto complessa. Quindi oltre a fare una ricerca nel reale e nella realtà, a me personalmente, visto che poi la mia formazione è assolutamente teatrale, mi capita molto spesso di pensare a dei personaggi della letteratura teatrale a cui sono particolarmente legato. Avevo messo a confronto questi due personaggi, Ciro Di Marzio e Iago, perché sono tutti e due militari, sono uomini di fuoco: Iago è definito un alfiere e allo stesso modo Ciro Di Marzio è un alfiere di Pietro. Quello che mi intrigava dei due era la componente psicologica perché rispetto al ruolo che rivestivano era evidente quanto la qualità del personaggio fosse molto superiore. Rispetto al personaggio di Imma penso che ci sia un’analogia con la Lady perché tutte e due, rispetto a delle logiche di potere, difendono un nucleo che è fondamentale, quello della famiglia: io non penso che Imma sia mossa semplicemente da un desiderio di salvaguardia, Imma difende un potere assunto che è quello della sua famiglia, allo stesso modo la Lady, con poi delle derive diverse, assume il potere decisionale nel momento in cui sente la fragilità del marito e deve difendere il suo branco, che è quello piccolo e ridotto a sé e al marito, allo stesso modo il nucleo di Imma…”
È anche un feudo, se vogliamo.
M.D’A.: “Si sì, assolutamente. Io credo che ci sia ovviamente una distinzione perché lì c’è un’epica dei personaggi e della vicenda che rimanda all’umanità, qua c’è una condizione più metropolitana; però se non si fa un distinguo così netto tra bene e male, tra realtà ed epicità, si può ritrovare anche in questa storia e in questi personaggi una descrizione molto più ampia dell’umanità.”
Una cosa che accomuna Gomorra al teatro classico è l’apparente assenza di scelta: sembra che la strada di questi personaggi sia già tracciata. Eppure vediamo che, come dicevamo, sono coscienti di cosa sia giusto, di cosa sia dannoso, disonorevole. Essendone coscienti in qualche modo sono in grado di effettuare una scelta, eppure uccidere è normale, spacciare e rubare è cosa ‘e niente eccetera. Però è come se il destino fosse già deciso qualsiasi cosa facciano. Qui non ci sono degli dei: chi è che decide?
M.D’A.: “Qui c’è una divinità luccicante e molto meno alta -in termini emotivi e sentimentali- e molto più concreta, che è il danaro. Dal mio punto di vista non si può non guardare a questi personaggi e a queste vicende se non incasellandoli in una logica di potere. Potere. Non è vero che non esistano sentimenti, esistono. Non è vero che non ci siano legami, ci sono ma sono tutti sempre piegati a logiche di potere, assolutamente. È questo il dio di Gomorra.”
Ti faccio la stessa domanda che ho fatto a Marco Palvetti: trentennale di Eduardo, “Le voci di dentro” in diretta con i Servillo e la regia ( televisiva n.d. EDD) di Sorrentino, hashtag dedicato in top trend su Twitter, successo incredibile. Dall’altra parte, non so se hai visto, c’è un video di Fanpage: sono andati per strada a Napoli…
M.D’A.:“L’ho visto, l’ho visto.”
Ecco, allora: “Eduardo chi? Ma parente di Maria De Filippi??”. I ragazzi di 20 anni erano 4 o 5 ma bastano e nel momento in cui il giornalista dice: “beh adesso ti scusi coi lettori di Fanpage” e “Vien’ t a piglià o’ perdono”, loro comunque capivano il riferimento. Problema nr 1: perché ci sono dei pubblici che sono completamente all’oscuro di cose che culturalmente li riguardano direttamente? Secondo problema: c’è qualcosa che culturalmente non trova più substrato per attecchire e quindi va in qualche modo modificato, rimodernato e, se serve, anche impoverito o alleggerito?
M.D’A.: “Rispetto al servizio ti rispondo in due modi: il primo è che è evidente che ci deve essere del sale e del pepe per fare un buon servizio e che la costruzione rispecchi in qualche modo la realtà ma che sia costruita ad hoc, ovviamente…”
Chiaro: non mostra quelli che… però già 4 o 5 ragazzi che non sanno…
M.D’A.: “Si sì: la memoria è un valore, se è coltivata tramandata e insegnata. Eduardo De Filippo, alla metà degli anni ‘70 inizio anni ’80, aveva fatto un’operazione magistrale registrando integralmente tutte le commedie de “La cantata dei giorni pari” e “La cantata dei giorni dispari” per la televisione. Quello era stato il progetto di un uomo lungimirante e di cultura che aveva capito quanto la partecipazione del pubblico a teatro si stesse perdendo e quella era una sua azione ben precisa per incidere rispetto alla realtà e per far sì che non si dimenticasse. Io mi ricordo, quando ero bambino, ho visto tantissime commedie di Eduardo in tv: sono 15 anni che non le vedo. Allo stesso modo ricordo di aver visto alcuni tra i film più belli che il cinema abbia mai prodotto in tv, in prima serata. Oggi è difficile che un mio coetaneo o un ragazzo più piccolo possa godere in tv in prima serata, sulla tv generalista, di un film di Volonté, i film della cinematografia italiana degli anni ‘70, da Petri a Germi a tantissime cose, la grande cinematografia americana. Il problema è quello, secondo me: questo è un preciso indirizzo culturale che non fa altro che impoverire la memoria che si dissipa nel tempo e impoverire il bagaglio culturale di chi guarda e di chi osserva; è evidente che ci sono delle cose che non hanno più spazio ed è un peccato.”
Teatro e media: una domanda che faccio spesso a chi si occupa di teatro. Probabilmente saprai dell’esperimento che ha fatto Daniele Timpano con Aldo Morto 54, quello è un esempio. Oppure “Le voci di dentro” in diretta in televisione. Tennesee Williams, o Peter Shaffer -mi sono occupata del suo “Amadeus” ultimamente- che vince anche l’Oscar, o Yasmina Reza con Polansky, dal teatro ecc. Il teatro deve essere per forza il “qui e ora” oppure può essere anche un testo che poi può anche essere declinato in cinema e televisione? Shakespeare, Marlowe, se avessero avuto il cinema lo avrebbero sicuramente utilizzato.
M.D’A.: “Sicuramente. Ma io penso che c’è da fare una grande distinzione: il teatro tout court è un’esperienza prima di tutto biologica e per biologica intendo che allo stesso giorno, nello stesso orario nello stesso luogo, un certo numero di persone condivide l’aria, le puzze, i sudori e gli sputi e decide coscientemente di partecipare a una finzione e dare per assunto che per due ore quella è la realtà. Quindi l’esperienza teatrale è quella. Che poi ci possano essere delle trasposizioni e delle derive, sia rispetto ai testi che la drammaturgia teatrale ha regalato, sia rispetto alla possibilità anche di raccontare il teatro attraverso il cinema, tu hai citato degli esempi altissimi: è dell’anno scorso “La venere in pelliccia”,un film che io ho amato tantissimo e che è il secondo esperimento che fa Polansky di trasposizione dopo “Carnage” ma fatto attraverso il filtro di un grande maestro del cinema che riesce anche a raccontare un’esperienza teatrale attraverso lo schermo.”
La Napoli espressa nella drammatizzazione di Gomorra: la città-
personaggio, personaggio spesso anche travisato perché si rischia sempre di cadere nell’errore interpretativo del folklore un po’ trash. A partire dalla versione teatrale di Gomorra di Mario Gelardi in cui tutto si svolge in una struttura tipo cantiere, nel film vediamo le periferie: tutto questo dà una connotazione internazionale al contesto, cioè ciò che caratterizza sia la Gomorra di Mario Gelardi, che la vostra, che il film di Matteo Garrone è il linguaggio, perché potrebbe essere Caracas o Berlino. Avrai sentito un po’di polemiche, tipo gite scolastiche annullate…
M.D’A.: “Ma quelle sono boutade! Quali gite annullate!?”
Eh ma tanta gente pensa che a Napoli davvero si viva così. Come mai il pubblico che Napoli non la conosce ha identificato una città che ha il centro storico più grande d’Europa semplicemente con un quartiere di periferia?
M.D’A.: “Allora: penso che sia molto comodo stare a sentire le voci e starsene tranquilli e comodi a casa pensando di vivere una vita tranquilla e che ALTROVE ci siano i problemi. In questo senso Napoli fa SEMPRE molto comodo al resto dell’Italia perché sembra un po’il coacervo dei problemi di questo Paese mentre altrove si sta bene: così non è. Poi, mi ripeto per l’ennesima volta: è IMPOSSIBILE e non è sicuramente l’intento di questa serie, raccontare Napoli, perché Napoli è un caleidoscopio di esperienze, di idee, di emozioni. Questa serie, così come il film e così come lo spettacolo di Mario, più che il linguaggio, più che l’ambientazione, hanno in comune il libro di Roberto. Il libro di Roberto è un libro che indaga le associazioni criminali dall’interno, quindi per forza di cose c’è un’accomunanza tra i tre progetti, ma non c’è assolutamente la pretesa di raccontare Napoli, anzi, c’è forse l’intento di demonizzare quello che rende Napoli un posto che potrebbe dare molto di più e che invece ha molti limiti.”
Torniamo alla lingua: se ne è parlato tanto, anche col discorso che Di Vaio ha cercato di creare uno standard nuovo di napoletano, diciamo che è un napoletano leggermente semplificato, non è il napoletano che si sente parlare per le strade, che è una lingua comunque difficile. Al di là del fatto che ci sono stati degli errori di traduzione: c’è una scena in cui tu dici “stamm pazziann” e viene tradotto “siamo impazziti”…
M.D’A.: “Eheh, vabè può scappare dai…”
Ci sono state delle italianizzazioni: c’è un’altra scena in cui tu dici qualcosa tipo “ ‘amm entrà” io direi “ ‘amm trasì”. Questo però rispecchia la realtà perché c’è un effettivo impoverimento della lingua napoletana che comunque è ricchissima di figure retoriche. Soprattutto in questo momento, ci sono più fenomeni: da una parte ci sono le persone magari un po’ anziane che parlano un napoletano ancora ricco, dall’altra i giovani italianizzano e dall’altra parte c’è un utilizzo estremamente poetico e difficile del napoletano nel campo della musica. Io ho preso la canzone di Lucariello e ‘Nntò e me la sono fatta non tradurre ma parafrasare: è un napoletano difficilissimo, ricchissimo di metafore. Nell’ambito della tutela che è appena stata sancita da parte dell’Unesco nei confronti della lingua, secondo te, l’hip hop napoletano può essere un bacino di salvaguardia?
M.D’A.: “Rispetto alla lingua napoletana bisogna fare una considerazione: a Napoli la lingua si è espressa prima nei termini della canzone e della poesia e poi è diventata linguaggio popolare. È così che si è affermata. Se si può parlare, in questo Paese, di LINGUE teatrali, a mio avviso, storicamente ce ne sono due, che sono il Napoletano e il Veneto, che sono state tradotte nel teatro, mi rifaccio alle esperienze di Goldoni per il Veneto e a quelle fino agli anni ‘70 e ‘80 della produzione Eduardiana. Rispetto a Gomorra io veramente sancisco un merito a SKY che ha comunque azzardato rispetto a un prodotto commerciale da prima serata nazionale comunque una lingua difficile da comprendere. È ovvio che sia edulcorata perché innanzitutto parlare di dialetto napoletano è difficile perché c’è un dialetto dei Quartieri Spagnoli, ce n’è uno del Vomero, uno dei paesi vesuviani…”
…Sì, cambia da rione a rione a volte.
M.D’A.: “Si sì. Noi abbiamo cercato di creare una lingua che suonasse e che fosse credibile in bocca a quei personaggi, poi è evidente che il linguaggio cambi, che ci sia una pratica sempre meno diffusa di conoscenza rispetto a quello che è il vero dialetto napoletano. Però, così come tu hai citato la canzone, per il teatro mi viene da citare Mimmo Borrelli, che fa un percorso personalissimo e secondo me veramente affascinante e meraviglioso rispetto alla lingua, la sua provenienza è quella dei paesi vesuviani. Fino agli anni ’70- ’80 c’è stata una produzione che è quella di Moscato, meravigliosa e altrettanto affascinante sulla lingua. Per cui penso che Napoli comunque è in un’evoluzione ma tenda sempre a conservare questa radice lessicale che spero non si perda mai.”
Tornando a Shakespeare, il grande genio del paradosso: come vediamo sia in Gomorra che in Perez sono personaggi da una parte repellenti ma sono anche molto attraenti perché hanno i soldi, coprono le donne di regali, i brillanti, le guardie armate (come dice il tuo personaggio in Perez). Nella loro essenza paradossale, se non fossero recitati in napoletano, quali dispositivi attoriali avreste dovuto utilizzare per renderli ugualmente penetranti?
M.D’A.: “Eh guarda, ti dico sinceramente che lì sarebbe stato difficile anche perché la fortuna per certi attori che anno un background così forte rispetto alla lingua, è che con l’italiano si compie già un percorso di finzione. Mi spiego meglio: per me il napoletano è la lingua del pensiero, io penso in napoletano, quindi se recito in napoletano non metto nessun tipo di filtro al linguaggio. Sarebbe stato impossibile: se tu guardi per esempio “The Wire”, che è una grandissima serie a cui Gomorra è stato paragonato, lì il linguaggio usato è quello dei sobborghi, quello del Bronx, quello dei quartieri, che è totalmente diverso dallo slang quotidiano. Tu così fai passare anche una verità. Viceversa sarebbe stato molto molto difficile.”
La lente culturale attraverso la quale i vari paesi hanno letto Gomorra: chiaramente i primi che hanno fatto riferimento a Shakespeare sono stai gli anglosassoni perché loro hanno quella del teatro elisabettiano …
M.D’A.: “No! O’ primm ch’ha fatto riferimento a Shakespeare so’ stat’ io, già primm ‘e Gomorra, e se l’hann pigliat tutt’ quant’ chesta cosa c’agg ritt e c’hann fatt’ ‘e titoli! Lagg ritt’ io perché nisciun’ l’aveva detto! Dammi questo merito!”
Allora ufficialmente scriviamo che lo hai detto tu e che gli inglesi ti sono venuti dietro!
M.D’A.: “Ok! Ahahaha!”
Quali sono le altre lenti culturali attraverso cui gli altri popoli hanno letto l’opera, come i tedeschi o gli spagnoli?
M.D’A.: “Innanzitutto quello che ci arriva dagli altri paesi è una conferma del fatto che questa serie abbia alzato tanto l’attenzione rispetto ai prodotti italiani: tutti quanti hanno brindato a un Rinascimento perché non si aspettavano che in Italia si potesse produrre una cosa del genere. Al di là dei contenuti, la prima cosa di impatto che è arrivata è stata la qualità e per qualità intendo scrittura, regia, fotografia, recitazione. Poi è evidente che ogni società fa i conti con un prodotto rispetto a quello che vive e che decide di raccontare di sé: io ti posso dire che ho avuto la possibilità, un pomeriggio intero, di confrontarmi coi giornalisti dei paesi sudamericani in cui a breve uscirà la serie, Cile, Paraguay, Argentina, tutti, e a latitudini così distanti c’è una vicinanza al racconto che è impressionante.”
Forse per l’argomento, trattandosi principalmente di narcotraffico.
M.D’A.: “Si sì, hanno riconosciuto la propria realtà. I paesi europei secondo me la conoscono, fanno molto più fatica a raccontarla, ma sanno bene quanto sia anche tra le strade delle loro città. Quindi secondo me ci sono stati due tipi di riconoscimento: uno dal punto di vista dei contenuti e un altro da quello della qualità che a mio modesto avviso è molto più importante, perché comunque io ridimensionerei questa serie a un prodotto audiovisivo e basta.”
Tu in questo momento hai un progetto su uno spettacolo sull’eternit?
M.D’A.: “Un film: lo sto co-producendo, il mio primo film, con la mia società che si chiama “La piccola società”. Lo sto co-producendo con Indiana Production che sono quelli de “Il capitale umano” di Virzì candidato all’Oscar. Adesso siamo in preparazione, siamo a Casale Monferrato perché gireremo dove questa vicenda ha avuto luogo; il mio socio Francesco Ghiaccio, con cui ho scritto la sceneggiatura, farà la regia, i protagonisti sono Matilde Gioli e Giorgio Colangeli ed è una grande vicenda tra un padre e un figlio sullo sfondo di questa storia che ha quasi 5 anni e che la settimana scorsa ha visto conclusa in cassazione, purtroppo amaramente, la vicenda giudiziaria. Quindi noi alzeremo ancora di più il nostro grido per rivendicare giustizia.”
In chiusura: un autore teatrale, testo teatrale, su cui ti piacerebbe lavorare e che ti piacerebbe interpretare e regista americano con cui ti piacerebbe lavorare.
M.D’A.: “Io ho avuto la fortuna di lavorare tanto con Toni Servillo, può sembrare scontato che citassi ancora il suo nome però mi piacerebbe tantissimo poter ritornare a lavorare con lui su un lavoro importante. Non faccio torto a nessuno citando lui ma ce ne sono tanti, anche perché il mio primo mestiere e la mia prima gioia è di fare lo spettatore, sia di teatro che di cinema: ammiro tantissimo il lavoro altrui e lo seguo sempre. Questo, il regista. Un autore che mi piacerebbe indagare e che sento vicino, conosco bene perché l’ho studiato e continuo a farlo, la produzione shakespeariana, sempre tra le mie letture anche ripetute rispetto allo stesso testo. Uno dei mie pallini è quello di mettere in scena un testo di Shakespeare con le modalità che mi interessano perché penso che sia, dopo la tragedia greca, il più alto esempio di letteratura teatrale mai prodotta.”
Regista americano con cui ti piacerebbe lavorare?
M.D’A.: “Non è americano ma è prestato al cinema hollywoodiano: ti dico Iñárritu.”