Questa mattina, al TCVI si è conclusa la rassegna “Danzare per educare”, progetto formativo della Fondazione Teatro Comunale di Vicenza realizzato in collaborazione con Arteven, dedicato agli alunni delle scuole ma aperto a tutti. Lo spettacolo “Fantastique” è stato proposto dall’associazione Danza Venezia, ideato e progettato da Viviana Palucci e Manola Bettio, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’associazione, e da Daniela Rossettini coordinatrice della rassegna. Lo spettacolo è stato diretto dal regista Carlo Presotto. Ho intervistato le ideatrici del progetto e il regista per capire sia come sta cambiando il pubblico dei ragazzi, sia quali sono i linguaggi e le tecniche di produzione più adatti.

 

Il teatro danza secondo voi è la forma migliore per approcciare i bambini a questo tipo di spettacolo?

Daniela Rossettini: “Parto da una riflessione che è nata durante uno spettacolo di danza in cui tutti i bambini hanno detto: “ma non parlano?” I bambini sono sempre stati abituati a vedere molto teatro nella storia della scuola italiana ma molta poca danza. Noi crediamo che fornire loro una storia che sia comprensibile e di facile interpretazione, mettendo qualche elemento di prosa, aiuti ad avvicinarsi alla disciplina della danza che comunque è abbastanza  sconosciuta per i bambini, perché c’è ancora molto l’idea delle scarpette e de tutù, anche nei maschi.”

 

Ho visto però che la parte di classico non ha riscosso lo stesso successo della parte dei pirati. Forse perché quest’ultima fa riferimento più all’iconografia cinematografica che per loro è più familiare?

D.R.: “ Il pezzo dei pirati è assolutamente fortissimo e l’entrata dalla platea coinvolge tantissimo.”

Carlo Presotto : “Io credo che nella drammaturgia dello spettacolo ci sia un’articolazione di vari linguaggi che ha l’obiettivo di raccontare la storia, poi ovviamente l’adesione di successo che hanno la morte e il diavolo o i pirati ha anche fare con…”

Viviana Palucci: “… un’identificazione anche da parte dei bambini con i vari personaggi: alla loro età è anche più difficile identificarsi con il principe e la principessa perché hanno un’età diversa.”

 

I bambini, oggi, sono molto più stimolati rispetto alle generazioni precedenti. Che differenza trovate nell’apprendimento dei ragazzini di oggi, rispetto a quelli di anche solo 10 anni fa? Si esprimono in maniera diversa? Quali sono i linguaggi che hanno acquisito maggiormente e che impiegano con maggior  spontaneità durante la creazione dello spettacolo?

C.P.: “Intanto, da regista sia di opera che prosa e danza per ragazzi, devo dire che ci stiano spostando verso una forma di spettacolo, sia nello spettacolo per ragazzi che per adulti, in cui i diversi linguaggi, il corpo danzato, la musica dal vivo, le immagini e l’articolazione visiva e testuale, si contaminano sempre di più. Ho sempre difficoltà a definire degli steccati tra i generi, in questo caso vedo che si sta avvicinando il confine tra teatro, danza, opera, musica  e la musica dal vivo, che è un’altra prospettiva molto suggestiva.  I bambini sono cambiati: dal 1982, quando ho cominciato a fare teatro per ragazzi, i generi erano molto separati, musica, teatro, danza, e a teatro si parlava per circa un’ora e mezza. Alla fine degli anni ‘80 il tempo di attenzione dei ragazzi era diminuita a circa un’ora di tempo e i copioni erano più leggeri; oggi i copioni sono ancora più leggeri degli anni ’90 e abbiamo meno parole e più gesti e immagini che parlano. È la nostra cultura che si sta trasferendo su questo terreno.”

 

Quindi, secondo lei, si va sempre di più  verso l’immagine?

C.P.: “Immagine e gesto diventano sempre più facili da diventare alfabeto per i ragazzi: loro sono in grado di leggere trame contemporanee e una complessità narrativa molto maggiore per i bambini dei primi anni ’90, sono in grado di leggere sinestesie, guardare immagini e percepire un’azione.”

 

Quindi il multitasking.

C.P.: “Esatto. Hanno però più difficoltà a dare un nome alle emozioni e a raccontare ciò che hanno provato.”

D.R.: “L’altra cosa su cui Carlo ha lavorato, e che credo sia servito a tutti noi insegnanti, è che lavorare a uno spettacolo del  genere costringe dai bambini più piccoli ai ragazzi più grandi, e questi non sono professionisti sono persone che possono venire a danza due massimo tre volte a settimana, ad entrare dentro al personaggio. Carlo ha lavorato sulle facce delle Barbie, i pirati che non dovevano essere donne anche se sono donne ma dovevano essere uomini, il lavoro che ha fatto Manola coi burattini o il circo a molla, ognuno è davvero entrato nel suo personaggio ed è uno sforzo rispetto alla propria personalità, che dal mio punto di vista ti serve poi nella vita, al di là che magari qui nessuno sceglierà il professionismo.”

 

Secondo voi com’è cambiato, nei bambini che fanno danza, la loro consapevolezza nei riguardi del momento di spettacolo e della costruzione dello spettacolo?

V.P.: “ Noi facciamo questi progetti che sono di formazione, specifici proprio per accostare bambini e ragazzi al mondo del professionismo. Questo progetto si chiama “Danza- altri spazi” e si compone non soltanto di questa fase finale ma anche di altri laboratori che lo precedono, con professionisti della danza, con il lavoro che abbiamo fatto con Carlo. Crediamo molto che attraverso l’esperienza, la ricerca e il lavoro d’equipe si possa formare comunque l’identità e la personalità di allievi che, come dice giustamente Daniela, non è detto che si daranno al professionismo ma avranno avuto comunque un’esperienza professionale.”

D.R.: lo step ulteriore è che generalmente, al di là delle rassegne e dei concorsi, i ragazzi delle scuole di danza, nel saggio finale, sono abituati a ballare per il loro genitori e per gli amici: qui era tutto un contesto diverso, loro dovevano emozionare,e questo per loro è stato l’importante. Un pubblico non solo che non conoscono  ma che se non lo prendi non applaude ma sta zitto o comincia rumoreggiare in sala. Avere avuto oggi più di 900 persone che hanno tenuto comunque una concentrazione e una tensione credo che, sia per chi ha vissuto lo spettacolo che per chi l’ha fatto, sia stato un momento importantissimo.”

 

Il tema del giocattolo che prende vita è un classico. Da “Lo schiaccianoci” a “Toy story”, è un tema che fa presa sull’immaginario perché è il valore affettivo e simbolico che attribuiamo all’oggetto, che risale alle ritualità ancestrali. Che rapporto c’è secondo voi tra questo retaggio di tipo antropologico culturale e la messa in scena teatrale in cui il giocattolo prende vita, e come viene vissuto  dai ragazzi,  sia quelli che fanno lo spettacolo che quelli che lo guardano?

C.P.: “Dal punto di vista antropologico c’è anche un gioco rituale: gli spettatori portano il loro giocattolo del cuore e alcuni vengono fatti parlare con i personaggi, perché il giocattolo rimane un oggetto importantissimo, attraverso il quale si inizia ad esplorare il mondo e quindi questo è il ruolo che gli diamo, prima che diventi un oggetto di consumo, ovviamente all’interno dei sistemi delle mode che a volte, però, corrono il rischio di snaturarne la funzione reale.”

 

Quali sono le metodologie di lavoro più nuove nella costruzione di uno spettacolo per ragazzi e in cosa si differenziano da quelle tradizionali?

V.P.: “Questo in particolare ha una metodologia che è veramente unica: si basa sula collaborazione di 10-12 scuole di danza. Ogni scuola di danza lavora con il proprio gruppo ma in un contesto generale sotto la direzione del regista. Per questo spettacolo abbiamo 3 cast, abbiamo messo in scena per ogni rappresentazione un cast differente.”

 

Quindi a Vicenza c’è un cast, a Venezia un altro, eccetera.

V.P.: “Sì perché il nostro è un progetto di formazione e abbiamo dato la possibilità a più persone possibili di partecipare ma allo stesso tempo è stato costruito attraverso una metodologia di work in progress: si lavora insieme, si costruiscono le scene insieme dando ognuno il proprio contributo confrontandosi continuamente.”

 

Ho visto nei credits che ci sono alcuni ragazzi stranieri nelle vostre scuole. Ci sono delle nazionalità che prevalgono, nell’interesse per la danza, oppure la cosa è trasversale?

D.R.: “Per quello che mi riguarda io vedo che stanno arrivando bambini soprattutto dell’Est: non solo c’è una cultura, ma i bambini maschi non si vergognano di venire a danza, anzi, lo comunicano con orgoglio ai loro compagni di classe, mentre ancora per i bambini italiani crea qualche problema.”

 

Quindi nella vostra esperienza i bambini provenienti dall’Est sono quelli più aperti e predisposti?

Manola Bettio: “Sono più abituati semplicemente perché c’è una cultura e una tradizione di danza che si sente.”

D.R.: “Giustamente, come dice Manola, c’è anche un supporto genitoriale di apertura che è importante perché una mamma che vuole portare il figlio maschio a danza vuol dire che non ha pregiudizi.”

 

I ragazzi e i bambini che preparano questi spettacoli per i loro coetanei, che percezione hanno del pubblico?

C.P.: “Da un lato c’è un riconoscimento, un sentirsi in comunicazione col pubblico, dall’altro non hanno la paura  che abbiamo noi adulti quando rappresentiamo per ragazzi. Io ho più paura del pubblico di ragazzi che di quello adulto, perché non mi perdona, se qualcosa non funziona me lo fa sapere subito. Loro condividono il territorio del gioco, credo che sia più o meno questo.”

M.B.: “E la consapevolezza di essere assolutamente onesti, altrimenti  non passa.”

 

Quindi questi ragazzi hanno maggiore percezione della verità in scena?

C.P.: “Michele Abbondanza, che è uno dei corografi che ci ha accompagnati, ha realizzato delle grandi creazioni per ragazzi proprio sul tema della verità.”

 

La risposta in sala è stata entusiasta: riscontrate la stessa partecipazione anche durante le altre fasi e gli altri passaggi del percorso di formazione?

D.R.: “Direi proprio di sì, anche perché noi abbiamo richiesto prove anche di sabato e domenica, quindi rubando tempo libero ai bambini e ai ragazzi. Nei percorsi formativi che abbiamo fatto, sia nel passo a due che nei workshop con Michele Abbondanza, c’è stata una grande curiosità e una grande voglia di mettersi in gioco, di confrontarsi anche con altri coreografi che non siano le proprie insegnanti di riferimento.”

V.P.: “Questo dipende molto anche da come le insegnanti  propongono il progetto ai loro allievi perché alla base di questo progetto c’è il desiderio,  la curiosità di confrontarsi continuamente e di crescere sulla base del confronto  e questo nel mondo delle scuole di danza non è sempre così scontato.

M.B.: “Confronto che non è competizione, che è una differenza molto sottile ma molto importante per noi.”

 

 

 

 

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