La settimana scorsa al Teatro Remondini di Bassano del Grappa è andata in scena una splendida pièce scritta da Edoardo Erba: “La Maratona di New York”. Due amici si preparano per andare a fare la celebre corsa e, nei 60 minuti di durata della pièce, chiacchierano, ricordano, discutono. Fino a un colpo di scena finale. Lo spettacolo, come mi hanno raccontato i due protagonisti, andrebbe rivisto più volte perché è un po’ come un film, pieno di indizi e suggerimenti che accompagnano sia i due personaggi che il pubblico  lungo un percorso pieno di domande e di riflessioni che si risolvono magnificamente nel finale. Uno spettacolo intimo, divertente e dal finale liberatorio e commovente che ha riscosso un grande successo in tutto il mondo, qui splendidamente interpretato e diretto da Cristian Giammaria, nella parte di Mario, e da Giorgio Lupano in quella di Steve.

 

In questa pièce vediamo una situazione reale che però la vostra regia propone come onirica fin dall’inizio. Le immagini dietro fanno un po’ da coro, perché  spesso introducono il dialogo successivo. Cosa simboleggiano le costellazioni dietro e perché le fate comparire e sparire?

Giorgio Lupano: “La corsa è finta ma al tempo stesso vera  perché noi stiamo facendo veramente fatica. Il cielo stellato è vero perché è una foto ma le costellazioni sono disegnate, non è un vero cielo né un vero luogo: danno una doppia lettura, la sensazione di un luogo un po’artefatto e non così reale, a sottolineare l’aspetto un po’ sognato e misterioso che dà il testo.”

 

Lo spettacolo dura 60 minuti e non potrebbe durare di più, dato l’impegno fisico. Che rapporto c’è tra l’evento reale rivelato nel finale e lo sforzo atletico che vediamo in scena?

Cristian Giammaria: “È una domanda che non ci siamo posti. Lo sforzo fisico è ovviamente tutto legato all’azione della corsa e si può mettere in relazione con la metafora della corsa stessa. È come se in quei  59 minuti, l’ultima indicazione che dà l’autore fino al passaggio a livello, ci fossero tutta l’esistenza di questi due uomini e dell’uomo in generale. Ovviamente la corsa è metafora della vita e dell’esistenza dei due personaggi. Forse stiamo raccontando la storia di qualcuno che ad un certo punto della sua vita, come succede a tutti noi, perde qualcosa e ne comincia e se ne sviluppa un’altra. Noi non abbiamo scelto, così come credo l’autore nello scrivere il testo, un solo significato. Il testo  è affascinantissimo, ci ha colpiti e ci ha colpiti ancora di più dopo che l’abbiamo messo in scena, proprio per questa ampiezza di possibilità di lettura. Edoardo Erba indica che loro sono dei trentenni; Dante dice: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, cioè quell’età intorno ai 35 anni, quel punto in cui si diventa uomini, si perde qualcosa e si acquista qualcos’altro per continuare a vivere.”

 

I due personaggi sono molto diversi, come succede sempre in uno spettacolo a due, però si scambiano di posizione e in qualche modo si fondono tra di loro. Secondo voi perché l’autore ha voluto  dare un’importanza così fondamentale all’amicizia, proprio in un momento come quello descritto nella pièce?

G.L.: “Nell’amicizia c’è tutto, proprio perché parlano di tutto. Sono personaggi diversi e complementari: mentre uno parla del futuro, degli obiettivi che si pone, è determinato e vuole andare avanti, l’antro invece ricorda, è ancorato al passato e quindi, allo stesso tempo, uno va avanti e l’altro si fa rimorchiare e trascinare. Questo provoca un equilibrio al centro della questione: il fulcro è l’amicizia. Quando Erba lo ha scritto, probabilmente aveva l’età dei personaggi: ha fatto una riflessione sulla sua vita, sulle sue esperienze  e sulle cosa che conosceva.  Quindi c’è l’aspetto umano di chi ha scritto la pièce, che viene fuori in questo modo. Spesso nei testi a due, ma anche nelle coppie a cui abbiamo pensato come Stanlio e Olio, Don Camillo e Peppone o Oreste e Pilade, ci sono due stereotipi, due personaggi in cui il pubblico si può identificare di volta in volta in uno o nell’altro, può scegliere chi seguire e chi assecondare.”

C.G.: “A me commuove molto l’idea che tutta questa determinazione di Steve, l’aggressività un po’ cinica che potrebbe indurre il pubblico a pensarlo antipatico, sia dettata dalla necessità di accompagnarlo in questo viaggio di cui lui forse è consapevole e l’amico, forse, no. Anche nella frase finale c’è una consapevolezza che in lui c’è e che Mario costruisce durante lo spettacolo.”

G.L.: “C’è anche una cosa che lo rende così duro e forse un po’ cattivo: la consapevolezza che lo sta accompagnando in questa sua scoperta e l’immagine finale la lasciamo aperta, non è scritta nel testo. Noi volevamo dare una suggestione più che una chiave di lettura in particolare: anche Edoardo, nel testo, è un pochino criptico ma abbiamo cercato di dare a chi vede la possibilità di farsi il proprio finale.”

 

Parliamo della musica dei Sigur Ros: sembra scritta apposta per questo testo, come l’avete scelta?

G.L.: “A me piacevano già da prima e mi ricordo una telefonata tra noi due in cui gli dicevo che volevo fargli sentire questo pezzo che si chiama “Festival”: lui canta in una lingua che non esiste e non c’è il rischio che la gente si distragga con le parole.”

C.G.: “La cosa che mi ha colpito di quel brano, dell’ultimo album prima che si sciogliessero, è che la musica dell’inizio e i tamburi finali sono un’unica traccia, è composta e dura 9 minuti: a metà si spacca e diventa un’altra cosa. È divisa esattamente a metà, così come un po’questo testo. Abbiamo trovato una traccia che “contenesse” tutto lo spettacolo.”

 

“La maratona di New York” è  stata tradotta e rappresentata in molte lingue. Non succede spesso per il teatro contemporaneo italiano, è più facile che i testi di successo vengano importati dall’estero. Secondo voi cos’è che è piaciuto negli altri paesi?

C.G.: “Credo quello che piace ovunque, compreso qui: il testo ha due grossissimi punti di forza che sono assolutamente seducenti, sia per chi lo fa che per chi lo guarda: la corsa, che è così insistita e protratta per tutto lo spettacolo, e il colpo di scena finale, che mette anche il pubblico nella condizione di voler rivedere lo spettacolo, come succede per certi film, perché poi rileggi tutto se lo guardi una seconda volta, cogli tutti i riferimenti e gli indizi, perché il testo ne è disseminato.”

G.L.: “È il motivo per cui ogni sera anche noi continuiamo a rifarlo: ci spiazza.”

 

Immagino che vi siate dovuti allenare per fare questo spettacolo. In che modo l’allenamento fisico vi ha aiutati nell’indagine psicologica dei personaggi?

G.L.: “Da non maratoneti abbiamo dovuto fare i conti con una diversa qualità di emissione, perché un attore sul palco non parla come una persona nella vita, bisogna tener presente tante cose, come la distanza del pubblico…”

 

Ma  di solito siete microfonati?

G.L.: “No! In questo caso queste cose perdono  importanza: l’emissione  e il respiro sono tutti condizionati dalla corsa, che è il padrone della vicenda.”

C.G.: “Paradossalmente è più facile fare questo testo: tolto lo sforzo fisico, che ogni sera mi pare di morire e che è anche una scommessa che si ripete ogni volta, non hai il problema di dover fare un’appoggiatura, perché il battito cardiaco e il respiro sono talmente condizionati dal ritmo, danno una naturalezza alle battute che è più facile acquisire che non se stai seduto.”

G.L.: “Anzi a volte bisogna tenerlo un po’ sotto controllo perché a volte capita che prenda il sopravvento, che il ritmo del dialogo si leghi un po’ troppo alla corsa. Noi dobbiamo proprio dirci di fare una pausa, un po’ perché sono scritte nel testo e un po’ perché due che fanno una corsa non è che parlino sempre e la corsa ci porta un po’ avanti. Dobbiamo fare la pausa anche per portare il pubblico dentro la corsa, anche senza annoiarlo: il minuto in cui loro corrono in silenzio è un minuto in cui due corrono in silenzio, non è che non fanno nulla.”

 

Questo testo non richiede grandi effetti scenici eppure è molto versatile. Secondo voi i due personaggi possono rivelare tratti molto diversi da quelli che abbiamo visto, non solo tramite interpretazioni  e allestimenti diversi ma anche con il passare del tempo, con il feedback di un pubblico che varia da paese a paese?

G.L.: “È stato fatto in molti modi diversi: con degli attori su dei tapis roulant, con gli attori fermi, uno in smoking e l’altro in tuta, è stato fatto al femminile e in molti altri modi. La nostra regia è questa e non so se in altri paesi, con un altro pubblico possa cambiare più di tanto: il discorso è che al centro c’è il testo di Erba e quello deve venire fuori.”

C.G.: “ Per me è stato bello perché è la prima volta che avevo l’opportunità di mettere in scena un testo in cui l’autore è così presente. Lo abbiamo conosciuto, è venuto alle prove, abbiamo parlato con lui, gli abbiamo fatto delle domande e ci siamo confrontati. Lui all’inizio era un po’ preoccupato che due attori debuttassero alla regia senza un occhio esterno, ci invogliava a prendere un regista ma noi avevamo già maturato delle sensazioni interne nostre, non volevamo far entrare una persona esterna, ci sembrava rischioso. Lui ci disse allora di fare quest’avventura e ci disse che l’unica raccomandazione che ci faceva era quella di non smettere mai di correre, tranne nella parte della caduta prevista dal testo, perché lui aveva visto tantissime versioni in cui uno dei due o tutti e due, per dare rilievo a dei discorsi o a delle battute, si fermavano. Lui ci disse che la cosa non funziona, deve essere continua e quindi bisogna farla fino alla fine.  Visto che è partita dall’autore, penso che sia un’intuizione giusta. Noi l’abbiamo seguita e assecondata. C’è quella caduta che serve a dare il giro di boa in cui gli atteggiamenti cambiano in maniera abbastanza rilevante.”

 

La struttura visiva dello spettacolo potrebbe essere sfruttata anche per il linguaggio filmico. Come vedete le contaminazioni tra cinema, video arte o anche web e teatro?

C.G.: “Io sono assolutamente favorevole, bisogna non cercare l’effetto nel tentare di attingere da altre fonti artistiche, come il cinema, la musica o in generale. Per web che intendi?”

 

Situazioni teatrali create apposta per la fruizione web, non  con il pubblico in sala, quindi una percezione diversa

G.L.: “A me piace la sala, la gente che esce di casa perché vuole andare a vedere uno spettacolo, un luogo deputato a che si racconti una storia, il confronto. I nuovi media e i nuovi mezzi vanno bene ma sono distinti dal teatro.”

C.G.: “ Oppure portare il web: ho visto lo spettacolo di Sciarroni, un artista marchigiano che ha fatto uno spettacolo intero con il computer e la webcam, lui con il computer di spalle al pubblico e proiettata di fronte al pubblico la sua immagine ripresa dalla cam, però in teatro ed è assolutamente una fruizione di sala. Se parliamo di teatro dobbiamo difendere la particolarità che ha a differenza di tutte le altre, cioè la presenza contemporanea di chi lo fa e di chi lo fruisce in un luogo comune che è un’assemblea dove la gente è portata a confrontarsi su uno o più temi. Noi facendo questo mestiere difendiamo il momento d’incontro tra il pubblico e l’autore, attraverso gli interpreti.”

 

Ipotizziamo una situazione di diretta web, fruita da persone che possono commentare con chat eccetera, secondo voi non può essere un frontiera?

G.L.: “Sì, può essere una frontiera , ma non è teatro! No so se hai visto “Carnage” di Polansky, da Yasmina Reza: Il film, per quanto rispecchi moltissimo la logica e l’ambiente del teatro, unità di spazio, luogo e azione, è un film coi titoli di testa e di coda. Se mi parli di sperimentazioni  web è un’altra cosa ancora. Da quando esiste, c’è gente che si siede su degli spalti e dei gradini di pietra per andare a vedere una storia che sa già come va a finire, ma ci va lo stesso a vederla e continuerà ad esistere.”

 

 

Prossime date  (info: www.stabilemarche.it)

Dal 2 al 6 maggio al Piccolo Eliseo di Roma

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