Questo week end, al Teatro Comunale di Vicenza, è andato in scena lo spettacolo “Romeo et Juliette”,  allestito dal celebre coreografo Thierry Malandain (che già ci aveva incantati qualche anno fa con la strepitosa serata Ravel–De Falla) e interpretato dai danzatori della sua compagnia, la Malandain Ballet Biarritz. Pièce che ha riscosso un ottimo successo di pubblico, “Romeo et Juliette” si presenta come un lavoro assolutamente corale e fortemente simbolico, grazie anche alla scelta di lavorare sulla musica di Hector Berlioz, che nel suo componimento non segue gli eventi della vicenda in maniera pedissequa. Lo spettacolo di Malandain è improntato sulla coralità e il personaggio di maggior rilievo è Padre Lorenzo, che apre e chiude il racconto. La caratteristica estetica di questo balletto è l’assoluto rigore nell’esecuzione delle coreografie messo in evidenza anche dalla spoglia scenografia. I costumi sono ispirati agli abiti usati. Tutto è essenziale e curatissimo ed è proprio questo minimalismo scenico che permette di orientare l’attenzione dello spettatore su contenuti filosofici, sociali e, se vogliamo, forse, anche teologici. C’è anche un po’ d’Italia in questo balletto, in quanto il coreografo si è ispirato alle catacombe del celebre Convento dei Cappuccini a Palermo,  tappa obbligata a Palermo già dai tempi del Grand Tour, dove sono inumate le mummie delle famiglie più danarose della città, vissute fino agli inizi del ‘900, che venivano abbigliate con vestiti che ne distinguessero il rango.  Parte da qui, e dalla versione di Béjart del ’66, sempre con le musiche di Berlioz, il viaggio filosofico di Malandain attraverso la celebre tragedia del Bardo. L’artista dimostra di ispirarsi molto a uno dei tanti aspetti della scrittura shakespeariana: la versatilità e la reversibilità dei personaggi. Padre Lorenzo, che è colui che sposa i due  giovani veronesi, e che li vuole aiutare, ne è anche in qualche modo uno degli artefici della morte. Apre e chiude il cerchio, rappresenta l’inizio e la fine, il tramite attraverso il quale la vicenda si snoda, fa da trait d’union tra i sentimenti, non solo dei due ragazzi ma delle loro famiglie.  Le famiglie rappresentano gli stati d’animo universali, i tanti modi d’amare e di odiare, ed è proprio questa pluralità corporea che ha un ché di metafisico: tante persone quante sono le epoche che ci dividono da questo testo che racconta di una natura umana da sempre descritta nella letteratura e nei testi scenici, già dai tempi del teatro classico. Non è solo un balletto composto da tante persone che danzano e che rappresentano l’umanità espressa attraverso la sua stessa natura, ma appunto un piccolo trattato di filosofia trasposto attraverso il teatro coreutico. Malandain usa il linguaggio della danza per esprimere anche dei concetti fondamentali, per esempio che ognuno di noi può essere sia Giulietta, che Romeo, che Padre Lorenzo: tutti possiamo essere estremi, sia nell’amore che nell’odio, e questi sentimenti  sono interscambiabili come un costume di scena che fa sembrare il soggetto un personaggio o un altro. Ed è proprio questo gioco teatrale che permette di  far relazionare gli artisti sul palco non solo con i loro personaggi ma con gli elementi scenici stessi, come i costumi e i bauli, che pur rimanendo sempre nello stesso contesto visivo  cambiano la loro funzione narrativa: da specchi che riflettono la luce verso il pubblico, a tombe, a scrigni con dentro il costume-personaggio, a sipario dietro al quale i danzatori scompaiono e ricompaiono. C’è molta poesia nella durezza di questo spettacolo, una delicatezza che si equilibra magnificamente con quella che può essere la freddezza di un concetto, ma che una volta portato in scena, per quanto possa essere puro pensiero filosofico, non può che diventare vita e quindi colpire, meravigliare e commuovere.

Info: www.maladainballet.com

 

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