La cosa importante di questo debutto era che  se ne parlasse.  Sulle grandi  testate specialmente. Perché in questi casi, questo conta: avere la massima eco. Le operazioni di marketing ai tempi dei reality sono fatte così: serve un nome di richiamo. Oggi, in ogni teatro, durante la stagione, che sia uno spettacolo di cartellone principale, collaterale o di ospitalità, ci sono sempre almeno un paio di nomi televisivi. Non se ne esce.  Qui siamo all’opera  e il nome televisivo  che deve attirare è quello degli scandali e del mostro da sbattere in prima pagina, insomma la proverbiale scelta coraggiosa con cui ti giochi veramente tutto.

Molti hanno ricordato che Morgan è l’ex Bluvertigo. Una ex rockstar. Insomma, robetta. Perché non c’è niente di peggio di una rockstar decaduta. Se poi si ricicla in tv, nessuno si lancia in anatemi, quelli sono appannaggio dei fans, non degli addetti ai lavori, perché ben venga la televisione, visto che è bacino di raccoglimento di nomi di richiamo che a volte  si rivelano dei talenti straordinari. È come quando ci sono le prime alla Scala: si ricorda il titolo, il nome del direttore d’orchestra, magari quello del regista ma l’evento consiste in cose tipo i vestiti di Valeria Marini, il girocollo di brillanti della Moratti, Marina Ripa di Meana con una pelliccia di mongolia imbrattata di sangue finto, contestazioni di varia natura che, pur legittime, sembrano avere senso solo in quel tipo di occasioni.

 

In questo caso il nome di richiamo è utilizzato in base alla conoscenza di massa del pubblico. le effettive capacità dell’incaricato, necessarie allo scopo, non sono  conosciute o almeno non verificate, perché la tv  non le mostra o quantomeno  il meccanismo televisivo dell’intrattenimento fa in modo che non si rivelino completamente.

 

Dire “ex bluvertigo”,  dà una connotazione  quasi  giustificativa da parte di tutti, perché Morgan è effettivamente quello di  X Factor ma è anche uno che 15 anni fa ( ere geologiche insomma, per i  canoni di oggi ) stava in una band e quindi di musica si presume che ne capisca qualcosa. Solo che Morgan dei Bluvertigo ( diventati i Bluvertigo di Morgan dopo X Factor)  è presente anche in questa opera che abbiamo visto al Coccia. È la stessa persona di allora. E non lo ha detto nessuno, perché la maggior parte delle persone che hanno scritto di questo allestimento  non conoscono Morgan dei Bluvertigo ( per il cui riferimento nei saluti finali, la sottoscritta sentitamente ringrazia). E soprattutto, all’epoca,  molti di questi che  hanno scritto non c’erano ai concerti, non erano davanti a MTV a guardare  i programmi scritti da lui o a vedere “Il tornasole” dove faceva  il recupero di tutta la tradizione musicale italiana.

 

Credo che sia molto difficile capire il valore culturale di questo allestimento de “il matrimonio segreto” se non si è vissuti i Bluvertigo. È un valore importante perché  questo gruppo ha  segnato  una generazione per la proposta  espressa in una forma estetica che non era solo visiva, ma era anche musicale, di concetti, di contenuti.  Era un modo di vivere e di proiettarsi in Europa: l’MTV award  fu il riconoscimento dell’Europa a una generazione di  italiani che veniva presa in considerazione  non solo dal mercato musicale di massa ma da quello culturale perché  all’epoca cera un grande fermento  e probabilmente ci si voleva anche riscattare dallo scandalo  di Mani Pulite degli anni precedenti. L’Europa era  pronta ( come la è anche oggi ) ad accogliere la generazione di nuovi creativi di cui i Bluvertigo si erano meritati l’investitura di ambasciatori. L’Italia c’era e c’era con i Bluvertigo.

In quest’opera si ripete un po’ questo modello, questa visione, un’estetica neoborghese e coltissima ma non per questo non fruibile, anzi, globalizzata ma con un’ironia  finissima  e tipicamente  meneghina.

Morgan  ha sempre avuto una grandissima teatralità, perché stare su un palco con un gruppo  vuol dire partecipare a un rituale che forse non è strutturato e regolamentato come quello della prosa convenzionale, ma che sicuramente ha molti più punti di contatto con un teatro d’azione e di partecipazione. In più Morgan, non l’ha scritto NESSUNO, sa leggere la musica.

 

il suo allestimento è cinematografico perché prende i segni di gran parte della storia del cinema, quasi sicuramente non intenzionali, ma inevitabili perché acquisiti e interiorizzati non solo dal’artista ma da intere generazioni, e non c’è solo il cinema, ma c’è il design, le illustrazioni, la pittura. I titoli di coda che impegnano tutta l’ouverture dell’opera, sono solo  l’indicazione più evidente. Il suo cameo non è fine a se stesso, alla Hitchcock, sebbene Morgan sfrutti l’insegnamento hitchcockiano  superandolo perché  non è una semplice firma, è partecipativo, elegge un flogger a MacGuffin fornendolo al suo personaggio in modo che porti avanti la scena. Si fa egli stesso parte dell’opera, perché lui non ne è padrone ma ne è servo come tutti gli altri; riesce a reggere il recitativo secco forse non con la voce, come capiterebbe a moltissimi del pubblico (e questo permette un’ulteriore identificazione, quindi un avvicinamento,  da parte degli spettatori in sala) ma tiene il ritmo e la melodia. L’ironia e la grazia con cui si pone, sono il vero tratto distintivo di questa sua partecipazione, sia come personaggio che come metteur en scène.  I colori sono forti e calibratissimi, magnificamente mescolati, vivaci ma non saturi, le luci sono taglienti e l’espressività degli attori  è organizzata tramite una gestualità  poco enfatica ma comunque identificativa. Gli elementi di scena non sono mai ridondanti, sebbene spettacolari e anche gli exploit sono centellinati: il drappo rosso, il caffè, “Maestro, Cimarosa!”. È  tutto molto garbato e ironico: già a sipario chiuso vediamo delle mini poltroncine ad accogliere  spettatori e spettacolo, parascintille di ipotetici  fuochi di illuminazione sulla ribalta di un teatro  settecentesco. Lo scomponimento  visivo delle parole cantate assegna un’ importanza centrale ai  fonemi ,i quali vengono arricchiti di più significanti che a loro volta, modificati, creano giochi di parole forieri di nuovi significati.

 

la casa sventrata, dietro, non può non far pensare a una delle illustrazioni di Escher o a De Chirico,  suggerimento quasi sicuramente involontario  ma non dissimile da quello che fa Bob Fosse in “Cabaret” quando cita Otto Dix. I personaggi sul retro, scuri e lunghi a mezza via tra le statue di Giacometti e i mimi di provenienza dal teatro danza.  Nelle note di regia  Morgan  fa capire che sia i personaggi che queste ombre possiamo essere noi che ci osserviamo. Sovrappensiero ti guardi vivere e ti incammini. E morgan si è incamminato in questa opera: più che un traghettatore, sembra esprimere  la sua vita d’artista.

la musica e la messa in scena appartengono anche a lui, che ne è per primo spettatore e, come noi, la vive insieme a noi e  ai suoi personaggi. Noi guardiamo l’opera di Morgan, che è in scena insieme agli altri con  segni di varia natura, dalla gestualità alla rappresentazione di  se stesso.   Alla fine non è il  personaggio egocentrico che partecipa perché deve esserci  a tutti i costi, ma è il discepolo della musica e del teatro che vuole condividere insieme a gli altri, perché l’unica gerarchia nell’arte è che essa è superiore a chiunque, pur appartenendo a tutti.

 

A Morgan è stata data una possibilità  che potrebbe rivelarsi veramente un territorio estremamente fruttifero, anche nell’ambito della prosa e chissà, in tempi di maggior disponibilità economica, magari permettergli la realizzazione di una sua propria gesamtkunstwerk.  Le potenzialità ci sono tutte e si sono già in parte espresse.

 

 

 

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