Nei giorni scorsi al Comunale di Thiene è andata inscena la pièce “Un nemico del popolo” di Henrik Ibsen, riadattata da Edoardo Erba, i cui interpreti principali sono Gianmarco Tognazzi e Bruno Armando, diretti dal regista Armando Pugliese. La pièce è ambientata nel ’70 e racconta di una vicenda in cui interessi politici e personali viaggiano sullo stesso binario delle colpe, delle responsabilità e della presa di coscienza. Si parla di inquinamento, di opportunismo ma anche di opportunità, di risorse, di gestione delle infrastrutture, di indotto, di salute. Una pièce meravigliosamente interpretata, che tiene incollati alla poltrona e che, sebbene andata in scena per la prima volta alla fine dell’ ‘800, anticipa in maniera profetica non solo le problematiche che vediamo nei programmi di informazione e di approfondimento, ma anche le dinamiche. Un’analisi capillare di tutti gli aspetti che si intersecano in una situazione dove interessi politici ed economici poco lungimiranti prendono il sopravvento.  Gianmarco Tognazzi  interpreta il dott. Storchi (Stockman nella versione originale), fratello del sindaco del paese. Nell’intervista che segue l’artista parla della pièce, degli ampi spunti di riflessione che questo testo può offrire e della situazione del teatro oggi.

 

Questa pièce è stata scritta nel 1882, parla di temi che per noi, che viviamo in questa epoca, sono comuni ma per allora l’impegno sociale, come lo intendiamo noi, era un po’ agli albori. Che impatto ebbe questa pièce sul pubblico dell’epoca?

“Sicuramente dirompente perché se pensi che ancor oggi ha un effetto molto forte sul pubblico, immaginati a quell’epoca. È come se oggi tu alzassi un dubbio forte, su qualcosa che all’epoca era molto anticipatorio e che lui sperava cambiasse attraverso la denuncia. La cosa che ci spinge a riportarlo in scena oggi è che sono passati 130 anni e sembra che l’abbia scritta a gennaio, per i temi che ci sono all’interno. Sono tantissimi: contaminazione dell’acqua, inquinamento in generale, potere di saper manipolare le notizie, il messaggio che arriva al popolo, rigirare la frittata istituzionalmente contro qualcuno che cerca di fare una denuncia pubblica per il bene collettivo. Quindi ci sono una serie di tematiche molto interessanti e ancora molto attuali e la risposta del pubblico è al di là dell’attesa.”

 

Il testo è stato riadattato da Edoardo Erba, è stato ridotto perché sarebbe di 5 atti: quali sono gli elementi del testo che avete ritenuto essenziali?

La grande capacità di Edoardo, che si rifà anche all’adattamento di Arthur Miller nel ‘50 però americaneggiandola , è stata quella di rivedere il testo di Ibsen e di cercare di mantenere invariati i personaggi fondamentali, che su 19 attori sono diventati 9, quindi levare quelle cose da teatro stabile, compagnia gigantesca e da ’800. La cosa che ho chiesto ad Edoardo Erba, insieme a Pugliese, e questa volontà di rilavorare insieme su un personaggio diametralmente opposto da quello di “Die panne”, è stata che l’unica cosa, secondo me, è stata di dare una percezione che faccesse sentire lo spettacolo vicino al pubblico, per esempio cambiando i nomi italianizzandoli, e l’altra cosa di posticiparlo alla data più vicina all’attuale che non cambiasse i contenuti di Ibsen. La data che abbiamo individuato è il 1970. Questi sono i due cambiamenti che portano al finale, dove l’intuizione del dottore è anticipatoria di quella che sarà la libertà d’espressione. Il resto dei contenuti sono chiaramente ridotti perché solo la conferenza durava un atto ma questo non toglie l’essenzialità dei contenuti. Si è levato davvero poco, forse le logiche attinenti a fine secolo e che oggi non davano niente di più.”

 

La pièce solleva il problema di minimizzare i problemi di inquinamento ambientale e di sfruttamento per favorire gli interessi dei politici e delle aziende.

“Anche, ma in realtà non è quello. È uno dei problemi che solleva ma la vera intuizione geniale di Ibsen è spostare l’obiettivo. Lui già dava per scontata la prepotenza del potere nei confronti della denuncia, quello che fa è cambiare la prospettiva: non sono loro i colpevoli, i veri colpevoli sono la maggioranza, che non è democrazia perché si rifà a un concetto per cui non è che se 100 persone sono convinte di un cosa che è sbagliata, e c’è uno che ha visto realmente il problema, allora è giusto che la maggioranza schiacci  quell’unico che ti dice che si sta sbagliando. Lui dice che: “se questa è la democrazia allora io non sono d’accordo che la democrazia è la maggioranza; i responsabili che danno la possibilità ai politici di fare quello che fanno, siete voi in quanto io mi tiro fuori da questo coro perché lo denuncio. Lo sono stato anche io quando non avevo ragionato sul concetto di maggioranza.” Questa cosa, se la rimetti oggi, anche noi ragioniamo sul concetto di maggioranza, quindi è una polemica che se era rivoluzionaria, oggi diventa anche molto provocatoria.”

 

Le comunità e le categorie hanno dei diritti inalienabili e l’ambiente va rispettato ma è anche vero che se si dice di no a tutto, il progresso non va avanti. Una pièce come questa evidenzia delle domande e fa riflettere. Uno spettacolo può suggerire anche delle risposte o è molto meglio che si “limiti” a proporre solo le domande?

“In generale io credo che il cinema, la tv e tutto quello che è, non debbano dare delle risposte. Se poi le suggeriscono involontariamente, va bene ma il compito è far riflettere e ragionare, poi ognuno decide  con il libero pensiero quello che secondo lui è la cosa più giusta. Non credo che sia il “dovere”, altrimenti si dà una responsabilità che realmente non ha perché, poi, la gente purtroppo esce da uno spettacolo teatrale e per qualcuno può significare un cambiamento di pensiero ma per molti è soltanto un intrattenimento. Dargli questa responsabilità, quando il cinema e il teatro non hanno alcun valore… Questo è il più grosso danno che abbiamo. Lo avrebbero se avessero il rispetto che merita questa categoria.  L’Italia ha il più grande patrimonio culturale mondiale e della cultura fa parte la letteratura, la lirica, il cinema, i siti archeologici. Se ragioniamo che a fronte di  300mila artisti, dietro a questi eventi artistici, a 300mila corrispondono  3 milioni di lavoratori tecnici, quando tagli la cultura non tagli solo gli artisti ma lavoratori specializzati: tagli la sartoria, chi fa il camerino, gli impianti elettrici, la scenografia, chi stampa i depliant, le maschere dei musei. Il concetto è che un Paese che non fonda la propria economia sul proprio patrimonio è autolesionista quindi è giusto che questo Paese, in cui se ne fregano, sono 30 anni che indiscriminatamente fanno tagli alla cultura, qualsiasi governo, fregandosene del proprio patrimonio più grosso e poi ti lamenti che stai in crisi? Ma come devi stare!? Quindi la polemica fatta da Stockman-Storchi, in questo caso qual è? Che va bene che tu che lo sai qual è il tuo patrimonio ad un certo punto devi costringere chi ti governa a far sì che non venga sperperato il tuo benessere, ma se tu non dici niente… infatti la polemica che si alza qui, sulle acque e sull’ inquinamento, la puoi riferire anche ad un’altra cosa, ma chi sono i veri responsabili? Se il popolo non si lamenta, che ormai siamo sul consumismo legato alla superficialità televisiva: la musica assorbita dalla tv, il cinema pure,  il teatro pure praticamente, se alla gente sta bene così…”

 

Ma forse perché la gente no ha dei parametri di riferimento: se viene proposto solo quello…

“No! Sei tu che ti metti in condizione! In questi 30 anni le cose son cambiate ma non è che quelli di 20 anni fa non sapevano com’era il panorama, prima, legato alla cultura, ad un certo tipo di musica o di teatro. Poi c’è la responsabilità oggettiva delle categorie stesse, che non hanno avuto la forza di porre dei blocchi e dei limiti.”

 

Però, vedi il discorso del Teatro Valle occupato, fa scalpore però sembra una cosa da addetti ai lavori: non è il pubblico che lo ha occupato ma gli artisti.

“Certo ma a quegli artisti si aggiunge chi è d’accordo, chi non lo è, chi partecipa. Oggi il settore dello spettacolo ha un problematica grossa di gestionalità: siamo tutti quanti precari perché non sapremo mai quello che faremo. Quindi diventa, poi, che l’esigenza del problema più tangibile prevarica l’ideologia, la volontà di associarsi con gli altri. È sempre stato così: che la mancanza di corporatività delle categorie, degli artisti, aggiunta a una demagogia fatta sugli sperperi, una serie di cose, hanno portato, in 30 anni,  che un settore, che dovrebbe essere il più grosso patrimonio, è diventato meno di una nicchia! Io lo trovo paradossale.”

 

Avete ambientatolo spettacolo negli anni ‘70, un periodo “analogico” dove non c’era internet e la sensibilizzazione ai problemi sociali avveniva per contatto diretto  con le manifestazioni di piazza e i comizi, eccetera. Che impatto ha un allestimento di questo tipo sul pubblico più giovane che ormai quasi non usa nemmeno più la biro per scrivere?

“Viaggia su altri livelli: è talmente semplice e comprensibile rispetto ai meccanismi di opposizione e alle soluzioni alternative di libertà di un uomo che vuole sentirsi libero di esprimersi e che si stupisce che la gente sia invece così condizionata. È semplice anche per i giovani da intuire: la forza dei grandi autori sta nel non dover essere criptici, lui è molto chiaro. A noi, in realtà, cambiava il cercare di rendere credibile che in un momento come questo, se tu vuoi provare a fare una libera protesta, oggi sicuramente hai più mezzi, quindi farlo diventare nel 2000 avrebbe cambiato certe cose di Ibsen. Per poter essere fedeli a Ibsen, in un rapporto vicino, quello è il periodo storico dove collocare. Poi se ti vogliono tarpare le ali lo fanno anche oggi. Alle nuove generazioni il messaggio arriva anche oggi: negli anni ‘70 loro non c’erano, per cui…”

 

Oggi c’è una sorta di anamorfismo tra i generi della comunicazione, la commistione più evidente è l’infotainment come “Striscia” e “Le iene” o il docudrama, dove vediamo dei piccoli sceneggiati creati apposta per l’utilizzo in ambito documentaristico.  Generalmente il pubblico tende un po’ a dividere l’approccio alla prosa di narrazione in teatro d’evasione e teatro di riflessione.  Questa pièce sembra dimostrare che la contaminazione tra teatro civile e commedia può funzionare, è così?

“È Ibsen che dichiara all’editore, quando finisce di scrivere “Un nemico del popolo”: “non so dire se questa  è più una commedia o un dramma”, quindi  l’autore stesso ci vede degli aspetti di commedia all’interno. Noi abbiamo soltanto seguito ciò che lui dichiara di se stesso. Se poi invece vogliamo fare un’ analisi su quello che oggi è l’intrattenimento, e che per meccanismi che esulano dal gradimento o dall’avvicinamento del pubblico al teatro, la grande confusione degli ultimi 20 anni è che si seguono, come al solito, più le mode che la continuità di determinati stili che andrebbero mantenuti. La prosa è la prosa, il cabaret è il cabaret, il musical è il musical, l’avanspettacolo, il teatro di ricerca: sono cose diverse. Funziona il musical? Si fa il musical, funziona l’off nei primi anni ’90? Si fa solo l’off, ma nelle grandi città perché poi non può andare in giro. Io e Gassman, con Longoni, portavamo a teatro gente di 18 anni che non ci andava e quella era una strada da continuare a perseguire perché c’era un modo, con autori e attori contemporanei , ad avere un ‘affluenza,  una nuova generazione di ricambio. Poi invece esaurita la fenomenologia di quegli anni… Sono fiammate, viviamo della fenomenologia del momento. E poi dividere il cartellone in prosa da una parte e cabaret dall’altra, invece vedi prosa-cabaret-prosa-cabaret-cabaret-cabaret-prosa. Che poi la gente che vede, e individua il teatro d’evasione nel cabaret e nel one-man show, dice che è andata a teatro, sei andato a teatro a vedere quello che già vedi in televisione e la prosa ne soffre: ci sono teatri di Torino e Milano che la prosa non la fanno più. Non facciamo finta che la gente si a costretta a fare i tormentoni, perché non è così, perché sennò fai quello per arrivare ad avere il nome e poi fai altro, se è un espediente per poter poi fare quello che vuoi, va bene. Poi diventa che la gente vuole quello perché questo è quello che gli si dà, la gente è anche libera di scegliere. Con tutto il rispetto, non è che sto criticando, ma io vedo cose che le faceva mio padre nel 1952.”

 

In una pièce come questa, dove il tema è centrale, quanto è importante l’approfondimento dei personaggi? Sarebbe lo stesso se fossero dei “tipi” perché è l’azione che conta e che va mandata avanti in ogni caso, come succede in certo cinema concettuale?

“In questo spettacolo ci sono due o tre cose che sono simboliche, come il marinaio che è anche l’unico rappresentante di comunione e di libertà con il nostro protagonista, perché gli altri sono più o meno ondivaghi,  mentre lui è l’unico che gli dà la possibilità di esprimersi. Il marinaio se vuoi è un personaggio più simbolico in questo caso, rispetto  ai personaggi fondamentali in ogni snodo.”

 

La scorsa stagione hai fatto Dürrenmatt, quest’anno Ibsen. Cosa ti affascina dei commediografi nordeuropei?

“Non c’è una preclusione, a me basta trovare delle cose e fare delle scelte che non sono prese dalla moda del momento. La forza di ricerca, come attore, è trovare lo spettacolo poco rappresentato oppure che non ha trovato nelle passate edizioni la quadratura del cerchio. È una sfida. “Die panne” non era mai stato rappresentato eppure nel grottesco era di un’attualità sconcertante: un uomo che pur di spacciarsi per un vincente, anche agli occhi della femminilità o di 4 vecchi con la superbia, si dichiara assassino, che non è assolutamente, e oggi si è disposti  a dichiarare qualsiasi cosa pur di esser  riconoscibili e vincenti. Individuare in uno che ha scritto nel ‘50 una cosa che oggi è più attuale del ‘50, ecco cosa mi attira: sono gli scrittori, come Ibsen in questo caso, che scrivono cose in tempi non sospetti che oggi, in una determinata forma, riescono ad essere poco rappresentate, attualissime e forse anche provocatorie.”

 

 

Nei periodi di crisi e di proteste come quello che stiamo vivendo, i problemi sono molto soffocanti . Qual è il ruolo della cultura nei periodi come questi ?

“È molto legato alla cultura del posto in cui si fa lo spettacolo: ci sono dei paesi e dei comuni che fanno una cultura teatrale attraverso l’incentivo nei confronti dei ragazzi, una tradizione di rispetto del teatro, di abbonamento teatrale, il tramando generazionale. Ci sono sfere diverse: per passione, perché lo apprezzano, ambizione di fare questo mestiere; capiscono  la differenza dell’intrattenimento,  tra la parola dal vivo e il filtro televisivo e questo a seconda di come si è lasciata andare o si è mantenuta l’attenzione su un programma culturale di quella cittadina. Le metropoli soffrono maggiormente di questa distrazione. In provincia noi invece ci sentiamo più ospitati, cambiano le percezioni e cambia lo stimolo, ma il teatro d’evasione ha dei prezzi che sono quasi superiori a quelli del teatro e ci vanno i fruitori televisivi che non hanno necessariamente un tradizione culturale e popolare. Quindi i mezzi, quando uno vuole, per andare  teatro… Dipende che scelta fai: che non ci sia la cultura di capire che il teatro può essere un intrattenimento divertente anche attraverso la prosa è perché negli anni si è fatta una demagogia sbagliata su cosa sia il teatro. Ecco perché io dò continuità al teatro: chi mi ha visto in “Closer” è rimasto scandalizzato, con “Prima pagina” hanno riso, “Die panne” angosciati e in questo qua mi vedono come l’emblema di uno che ha il coraggio di sputare la verità in faccia a tutti. Lo crei tu questo rapporto fidelitario, cosa che in teatro  mi posso dare l’occasione di fare, al cinema e in tv, me lo danno i registi,  i produttori, i capi struttura: non posso scegliere, loro scelgono nel panorama, a teatro no. Io sono 20 anni che vengo qua, la gente si ricorda ancora di quando venivo con Gassman, quello era un momento che andava sfruttato per mantenere continuità: i giovani che venivano ora sono il 2 % , dovrebbe essere almeno il 30, perché così crei nuovi abbonati, gente che si fida di venire a vedere cose nuove, che inizia a comprendere a valutare. Se tu fai un programma dove fai tutto intrattenimento da cabaret, quando poi fai la prosa, non ridi più se non hai la battuta d’effetto o il tormentone.”

 

Tournèe

3 e 4 marzo, al Delle Arti di Salerno

Dal 6 all’11 marzo al Della Pergola di Firenze

Il 13 marzo al Comunale Candoni di Tolmezzo

Il 16 marzo al Cinema Teatro Chiasso  di Chiasso

Il 17 marzo al teatro di Varese-Chebanca! di Varese

Il 20 marzo all’Excelsior di Empoli

Dal 21 marzo al 1 aprile al Carcano di Milano

Il 3 aprile al Verdi comunale di Castel San Giovanni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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