cannito

È consuetudine, durante le feste natalizie, per molti teatri nel mondo, di portare in scena l’opera che più di tutte rappresenta il Natale e il suo simbolismo legato all’infanzia, “Lo schiaccianoci”.

Il Teatro di San Carlo di Napoli ha scelto di seguire la tradizione e di proporre il balletto nell’allestimento del coreografo Luciano Cannito, attuale direttore artistico del Balletto e del Corpo di Ballo del Teatro Massimo di Palermo, già direttore artistico del Balletto di Napoli, Balletto del Petruzzelli di Bari, Balletto di Roma e del Corpo di Ballo del San Carlo. Coreografo, regista sia di  prosa che d’opera a livello internazionale e recentemente anche di cinema, il M° Cannito è diventato popolare tra il grande pubblico grazie alla sua partecipazione in qualità di consulente e docente di danza nella trasmissione “Amici” di Maria De Filippi.

Il suo Schiaccianoci è rispettoso della tradizione sul piano formale ed estetico ma la rilettura che ne fa Cannito è  prevalentemente socio-psicologica: la famiglia rappresentata è un contorno, la vera e assoluta protagonista è Clara e ancor di più il cammino che fa la ragazzina verso l’età adulta, accompagnata dal suo precettore Drosselmeyer.

Cannito organizza il cambiamento di Clara in modo uniforme e lineare, utilizzando anche dei simboli, come la scalinata verso il cielo, per raccontare le avversità ma anche l’elevazione, il tutto trasmettendo un’assoluta serenità, che viene percepita nella sua compiutezza nella scena finale, dove è evidente l’avvenuta costruzione della personalità adulta della ragazzina che  si incammina verso la vita, consapevole di se stessa e delle sue possibilità.

 Lo Schiaccianoci è una di quelle opere che è stata rivisitata innumerevoli volte ma questa rappresentata al San Carlo è sicuramente è una delle più commoventi perché il passaggio dall’adolescenza all’età adulta messo in  scena da Cannito diventa un vero e proprio auspicio nei confronti di tutti i ragazzini, ed è estremamente toccante perché regala anche agli adulti un ricordo o una speranza. Questo allestimento inoltre dimostra come si possa utilizzare il linguaggio rigoroso del classico per poter offrire una rilettura assolutamente adeguata alla società contemporanea.

Ho analizzato lo spettacolo con il M° Cannito nell’intervista che segue. Oggi le ultime due repliche alle ore 17 e alle ore 21.

 

 

“Lo schiaccianoci” è una metafora della crescita della bambina che nel sogno diventa adolescente. Béjart ne fece una rilettura tutta incentrata sulla madre e, sempre rimanendo su Tchaikovsky, Mats Ek rivisita “La bella addormentata” trasformandola in un’eroinomane che invece di pungersi col fuso si buca con una siringa; “Il lago dei cigni” di Matthew Bourne, che oltre alla spettacolare versione maschile ha un sottotesto che potrebbe sembrare una critica ai Windsor. Come mai quando si devono fare delle rivisitazioni importanti sul piano sociale o psicanalitico si tende sempre a prendere la musica di Tchaikovsky?

Luciano Cannito: “Secondo me perché la musica di Tchaikovsky rispetto al balletto è come quella di Mozart rispetto alla sinfonica: musica universale, nel senso che Tchaikovsky riesce a non fare solo musica per balletto ma a fare musica vera e completamente inusuale rispetto all’800, dove le musiche per balletto avevano degli standard diversi. È una musica che non è scritta specificamente per la variazione di danza, per gli 8 tempi che servono per fare il manège, ma racconta un’emozione e in questo modo è più facile poterla usare per delle storie che non sono state scritte espressamente per quella partitura coreografica.”

 

 

Tchaikovsky tra l’altro è un musicista un po’ anomalo perché lui è un po’ uno spartiacque tra la tradizione russa folklorica e le avanguardie che sarebbero arrivate di lì a pochissimo: ci sono delle avvisaglie di queste avanguardie nella musica di Tchaikovsky secondo lei?

“Questa è una domanda specificamente musicale e ti rispondo secondo il mio gusto e sensazioni: innanzitutto nel secondo atto, nella variazione della Fata Confetto c’è un uso della strumentazione che è completamente diversa rispetto a quella delle variazioni delle prime donne degli altri balletti o l’utilizzo di meccanismi nella battaglia dei topi e dei soldatini.”

 

Parla della celesta e di altri strumenti?

“Esattamente, ma non solo. È complicato proprio dal punto di vista strutturale: nella scena della battaglia dei soldatini e dei topi, il tempo non è affatto regolare e ci sono tante cose che poi avremmo ritrovato nella musica contemporanea moderna successiva, senza essere mai descrittiva né didascalici nella composizione musicale. Anche un po’ nei fiocchi di neve nel finale del primo atto,  perché anche se è un tempo ternario, c’è un uso della melodia e dei temi che non è mai regolare: i coreografi impazziscono a contare le musiche della battaglia dei topi e dei fiocchi di neve.”

 

Sempre meno si lavora con l’orchestra, qui invece abbiamo potuto godere di  una bellissima esecuzione valorizzata dalla meravigliosa acustica del Teatro San Carlo, che si dice sia la migliore cassa armonica del mondo. Come si coordina il coreografo col direttore d’orchestra? Il vostro lavoro insieme comincia  da prima della prova di antepiano?

“Certamente! Il direttore d’orchestra viene in sala e trascorre alcuni giorni durante le prove con il coreografo per mettere a punto tutti i tempi giusti: non dimentichiamoci che il pubblico che va a vedere uno spettacolo di balletto innanzitutto VEDE lo spettacolo a differenza di un concerto, dove ascolta, prima di ogni altra cosa. Per cui è un po’ la musica che si mette al servizio di un’arte che ha delle necessità estremamente precise e molto molto rigide.  Il direttore d’orchestra, dirigendo un balletto, non può ignorarle perché il motivo stesso per cui quella partitura è stata scritta è che degli esseri umani danzassero su quelle note. Devo dire che negli anni ‘80 c’è stato un momento in cui era molto complicato riuscire a trovare una sinergia, in un momento storico in cui la danza era un po’ vista come la cenerentola, quasi intrattenimento piuttosto che una vera e propria forma d’arte. Oggi, grazie a Dio, questo è abbondantemente superato, la danza ha sempre più successo, i teatri sono sempre più pieni e c’è sempre una maggior considerazione musicale da parte dei direttori d’orchestra e delle orchestre, sapendo che sono appuntamenti molto molto attesi  dal pubblico.  Non trascurerei neanche di ricordare che le più importanti partiture  musicali che hanno cambiato la musica del ‘900 sono quasi tutte state scritte per balletto.”

 

Infatti. In questa sua versione vediamo come nella parte della realtà le luci siano basse, i colori caldi ed uniformi, con una prevalenza di rosso. La parte del sogno, invece, ha un’ illuminazione più piena e i colori sono molto più variabili, come se il sogno fosse una sorta di rivelazione e la realtà fosse una forma di torpore o realtà embrionale, seppur bellissima. Anche lei, come Tim Burton, crede che la parte fantastica sia più brillante e viva di quella reale? 

“Io sono molto felice che tu abbia citato Tim Burton, che è un regista che io adoro. Trovo che il nostro dovere sacrosanto, oggi, di autori che fanno teatro, sia quello di raccontare favole e altrettanto il dovere di chi invece ci guida e amministra sia quello di NON raccontarci favole. Per cui  noi possiamo permetterci, e siamo pagati e in effetti siamo qui, perché il sogno non scompaia in un mondo in cui diventa sempre più complicato sognare ed è, credo, una forza sociale molto importante.  Ecco perché per me è effettivamente fondamentale dare enfasi alla parte enigmatica e  mistica che il teatro, in qualche modo, riesce a regalare con più facilità della televisione o di altri mezzi di comunicazione.”

 

Una cosa che  mi ha colpita di questa sua versione de “Lo schiaccianoci”e che io trovo estremamente commovente è il modo in cui hai impostato l’evoluzione di Clara, che nasce come una specie di viaggio in cui Drosselmeyer le fa proprio da Virgilio perché tutto lo spettacolo mi  sembra improntato proprio sul momento del passaggio e del cambiamento della fanciulla. Un’altra cosa che mi ha incuriosita è che di solito la parte delle danze di carattere è un’allegoria dei dolci che prendono vita nel sogno di Clara, che effettivamente è ancora bambina. Qui invece la danza araba, generalmente associata al caffè, sembra quasi una garbatissimo riferimento alla nascente sessualità di Clara. Il tutto però viene organizzato con una delicatezza veramente toccante, così come è davvero commovente e anche altamente simbolica la scena finale: è davvero l’adolescenza che tutti i ragazzini dovrebbero vivere.

“In effetti è molto esauriente la tua analisi e mi fa piacere perché molto spesso un autore pensa delle cose e  poi sa che su  100, al pubblico ne arrivano 20, 30 o 40. Effettivamente hai colto nel profondo anche queste sfumature che io volevo raccontare.”

 

Lei i dal 2010 fa parte del direttivo artistico del programma Amici. Spesso accade che i grandi professionisti della cultura, una volta che approdano in tv, vengano incompresi dal pubblico popolare televisivo, che è abituato a molta volgarità e a un’espressività assolutamente priva di codici derivanti da una preparazione anche basilare nel campo umanistico; anzi, quando avviene che si facciano dei riferimenti, subito si viene ripresi chiedendo di “parlare semplice”. Molti coreografi mi dicono che effettivamente “Amici” ha contribuito fortemente al turn over generazionale del pubblico della danza e a riempire sia le scuole che i teatri. Ma il problema che secondo me non andrebbe sottovalutato è un altro: quello dei diversi tipi di pubblico. Il pubblico televisivo vene portato verso la danza, ma quello degli habitué percepisce questa operazione come un pericolo per la proposta, che rischia di appiattirsi verso i gusti di un pubblico poco educato. Se la diffusione della cultura nella tv generalista di massa è importante, come riuscite voi artisti e consulenti a conciliare le attività? Anche perché molto spesso si sente dire: evento annullato o rimandato per impegni televisivi. Questo è un problema di pubblico da dover accontentare?

“Questa è una domanda molto delicata che meriterebbe un lungo approfondimento. In realtà io sono molto più biblico nel mio modo di considerare questo argomento, nel senso che se leggo che San Paolo diceva che lui si faceva greco coi greci, giudeo coi giudei e romano coi romani pur di parlare dell’argomento, credo che oggi il discorso sia lo stesso. Noi oggi non dobbiamo guardare al particolare ma al generale e cioè che un mezzo di comunicazione permette  a 4-5 milioni di persone di potersi rendere conto che la danza è un attività di cui si può vivere e fare professione, che ha pari dignità del canto. Fino a 10-20 anni fa non era così perché quando la gente ti chiedeva che lavoro facevi, se rispondevi: “il ballerino”, ti chiedevano: “sì, ma che lavoro fai?”. Anche la coscienza di alcune cose come ad esempio la coreografia dei passi di danza, cioè tutta una serie di informazioni che, effettivamente, la possibilità di parlare a un grandissimo pubblico ha amplificato e reso più popolare. Questa è una macroinformazione che da un certo punto di vista è molto funzionale a chi fa danza e fa il nostro lavoro perché non ci rende più ghettizzati. Poi se nello specifico ci sono dei limiti dati dall’uso televisivo, che è un uso molto specifico chiaramente, e che in altri casi possano esserci dei problemi come dicevi tu, questo sta all’abilità di chi fa questo tipo di trasmissioni o di chi si occupa di danza, di portare acqua al proprio mulino: io mi rendo conto che in quanto direttore artistico del Balletto e del Corpo di Ballo al Teatro Massimo di Palermo ho in qualche modo sfruttato la popolarità che mi ha dato la trasmissione “Amici” per portare un pubblico di giovani e di ragazzi adolescenti che altrimenti al Teatro Massimo non ci sarebbero mai venuti. Io la trovo una grande vittoria perché loro quando sono venuti al Teatro Massimo, dove sono venuti grazie ad “Amici”, non hanno visto un programma televisivo ma hanno visto uno spettacolo di balletto nel Teatro Massimo di Palermo: se questa non è una grande vittoria, io giudico  davvero accademico qualsiasi altro tipo di discorso. Anche un politico se ha una bellissima idea ma  se non ha un mezzo di  diffusione per poterla raccontare non serve a niente.

 

Nel mondo della prosa da molti anni si discute di come i linguaggi televisivi debbano o possano valorizzare il linguaggio teatrale.  Quando vengono trasmessi spettacoli di danza in televisione generalmente si preferisce mandare in onda la danza classica. Perché si predilige il classico e il moderno viene preso meno in considerazione da chi fa palinsesti anche culturali ?

“Il classico ha un impatto che va a toccare delle corde che sono più vicine a quello che è il nostro sogno, e quello che è dentro di noi radicato dall’infanzia, un’emotività più recondita.”

 

Molto spesso nei cartelloni dei festival si trovano spettacoli di danza che apparentemente  sembrano di prosa perché magari sono completamente parlati e invece dal punto di vista della regia vengono concepiti con un criterio coreutico, e spettacoli che invece  vengono proposti come prosa ma che sembrano danza perché il concept prevede una mobilità molto libera e appariscente  che però è a sostegno dell’impianto narrativo. Nel cinema esiste un filone di film legati alla danza che però rimangono appannaggio dei festival o comunque di appassionatissimi. Oggi, soprattutto nella prosa, si parla molto di massa critica, di pubblico  da educare e di selezione. In Italia sarebbe possibile una migrazione di questi contenuti considerati di nicchia in una televisione rivolta a un pubblico massificato?

“È un po’ più complesso secondo me, perché se l’argomento è estremamente di nicchia naturalmente interessa a una fascia di popolazione più ristretta, e se c’è un limite invalicabile in televisione è il numero di persone che la guardano che consentono che la trasmissione continui ad essere fatta. Per cui, inevitabilmente, lo spazio riservato a questo tipo di interventi artistici che possono essere portati, deve essere fatto con canali specializzati, quindi satellitari, dove tu scegli di vedere una cosa e riesci in qualche modo a fruirne, ma la televisione cosiddetta generalista ha molte difficoltà. La lirica per esempio non è mai riuscita a portare quello che è riuscita a fare una trasmissione come “Amici” perché non ha lo stesso impatto dinamico e visivo che riescono ad avere la danza o la musica leggera con le canzoni: so che la lirica ci ha provato più volte ma con scarsissimi risultati.”

 

 

 Pochi giorni fa è morta Vittoria Ottolenghi. Quale dovrebbe essere, secondo lei, il suo lascito fondamentale per noi giornalisti? 

“Guarda, Vittoria Ottolenghi è stata una persona che io ho amato e rispettato tantissimo, il nostro rapporto era essenzialmente professionale e la cosa che mi ha insegnato da morire, a me, e lo dico con grande sincerità, e con la quale mi trovo perfettamente in sintonia, è di non avere alcun preconcetto culturale ed estetico di nessun tipo di fronte all’opera che si va a guardare. Lei non aveva mai un’immagine precostituita di quello che andava a vedere, era una persona che riusciva a sorprendersi. Questa è la cosa che io mi auguro che voi giornalisti possiate prendere ad esempio, perché nel momento in cui un giornalista va a vedere una qualsiasi forma di arte o spettacolo  partendo da un presupposto di far rientrare quello che vede all’interno delle proprie idee o convinzioni, in quel momento c’è già una sconfitta. Se invece sei aperto e completamente senza preconcetti, riuscirai a cogliere la cosa nuova esattamene quando arriva, vera, bella e a parlarne in modo sincero.”

 

sito ufficiale del M° Cannito

http://www.lucianocannito.com/

 

 

sito del Teatro di San Carlo

 http://www.teatrosancarlo.it/

 

 

 

 

 

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